Il miracolo della condivisione
di Francesca Benvenuto
Tra i tanti interventi fatti a Messa che sono reperibili sul sito della Comunità, vogliamo offrire ai lettori del Giornalino questo intervento del giugno scorso fatto da Francesca Benvenuto.
Gesù prende i pochi pani e i pochi pesci e sfama tutta quella gente, lì venuta ad ascoltarlo. Gente che in quel momento è sotto l’urgenza di un bisogno primario, quello di nutrirsi. E la risposta di Gesù è condivisione. La prima interpretazione non letterale di questo brano l’ho avuta da ragazzina, leggendo il romanzo ‘La tunica’ di Douglass, lettura che spiega razionalmente il miracolo come miracolo di condivisione, appunto.
E ho vissuto allora, e per molto tempo la contrapposizione tra miracolo quasi (forse senza quasi) atto magico e il gesto umano spiegato razionalmente. Nel primo gruppo entravano i gesti di Gesù che non riuscivo a spiegare alla luce della ragione, la resurrezione di Lazzaro, ad esempio, e nel secondo gruppo i gesti spiegabili con la ragione, come la moltiplicazione dei pani ed dei pesci appunto, come due gruppi contrapposti. Con il passare degli anni mi son resa conto che le cose erano più complicate, ma il discorso ‘miracolo’ non era per me uno di quelli centrali, non me lo ponevo neanche come problema, lo staccavo dal resto. E sicuramente pensavo che non potesse riguardare la mia vita. La mia esperienza di vita di quest’ultimo anno, soprattutto quella dell’estate scorsa, esperienza che mi segna ancora oggi, ha cambiato la mia visione delle cose: mi sembra di aver capito di più il significato della parola condivisione e del perché la si può accostare alla parola miracolo. Per lo meno è quello che io ho vissuto ed è quello di cui ho chiesto di potervi parlare stamani.
Riassumo brevemente la mia vicenda: mi son trovata, nel giro di pochi giorni da donna, non più giovane ma completamente autosufficiente, partita felice in vacanza con auto e tenda, a donna in pericolo di vita e in uno stato di dipendenza assoluta, di cui non avevo memoria; nella dipendenza assoluta, per intenderci, che si ha nel primo anno di vita. Ero bisognosa degli altri per la soddisfazione di ogni bisogno primario, tra cui quello di nutrirsi è il meno imbarazzante.
Quasi improvvisamente quindi mi sono trovata catapultata da uno stato di autosufficienza fisica e psicologica caparbiamente perseguita e orgogliosamente conquistata ad un letto d’ospedale da cui non mi sono alzata per quasi un mese, e anche allora per passare su una sedia a rotelle.
Fin dal primo momento, già in Corsica, ma ancor di più dopo l’attacco più grave, mi sono sentita animata da una forza – che non sapevo di avere, che non so tuttora se avevo nascosta dentro di me o se mi è arrivata – che mi ha spinto a lottare per la mia vita. Ecco, preciso che non voglio essere drammatica, tanto meno melodrammatica, ma non voglio neanche banalizzare la situazione, non per me, ma perché non voglio togliere significato a quanto di bello mi è successo e che non è dipeso da me.
Quindi, ho lottato da subito per la mia vita e per la mia riabilitazione, prima ancora di capire il significato pieno di questa parola. In questa lotta, che a tutt’oggi non ha mai avuto un arresto, io ho trovato un’energia che mi spingeva alla vita, che mi faceva accettare, quasi sempre con tranquillità d’animo, una situazione che avrei ritenuto fino a pochi giorni prima intollerabile e umiliante, un’energia che mi spingeva, nonostante le difficoltà in cui mi trovavo, a vedere con lucidità, d’istinto, quello che era meglio per la mia vita.
Vita che in quel momento percepivo, come poche volte mi era successo, come un tutt’uno tra corpo e mente e cuore e pancia e anima, se vogliamo usare questo termine: non c’era più distinzione. E quest’energia vitale, quest’energia che sentivo fisicamente come fosse una cosa concreta, quest’energia che mi ha permesso di sopportare e di agire in un modo che – vi garantisco – era decisamente al di sopra delle mie capacità, di quello che io ero, quest’energia da dove è scaturita? Non lo so, o meglio lo so se uso il termine sapere non nel senso di conoscere razionalmente (come si sa la storia della grande guerra) ma nel senso di essere cosciente, di essere consapevole con tutta me stessa che quest’energia è venuta da tutti coloro che subito, dagli amici in Corsica, da tutti gli altri poi – e non ne faccio il nome perché sono troppiche si sono precipitati da me, a portare il loro conforto, a portare il loro aiuto, concreto, nell’immediato concreto, perché di concretezza avevo necessità, di camicie da notte pulite,di acqua minerale, di chi mi preparasse il letto per la notte, di chi m’imboccasse …
Di pane e di pesce avevo bisogno, ma questo pane e questo pesce, che mi sono stati portati, non mi hanno solo dato la risposta al bisogno materiale – fondamentale, prioritario – ma sono stati il canale, il gesto, da cui è passata l’energia che mi ha dato forza. E quest’energia, la coglievo giorno dopo giorno, in quel letto d’ospedale, all’inizio d’istinto, poi sempre più consapevolmente, la coglievo sicuramente nelle cure materiali, ma la coglievo, l’assorbivo in tutti coloro che sono riusciti a farsi sentire vicini, anche con un messaggio.
Era come se io ricevessi questa linfa vitale da tutti coloro che in qualunque modo, occupandosi di me, anche solo mandandomi a salutare, manifestavano il loro affetto. Uno forse può pensare – io un anno fa avrei pensato- che questo affetto fosse un conforto morale, psicologico. No. E’ stato ben di più.
Questo affetto, questa condivisione della mia sofferenza che era totale, dell’anima e del corpo, sono stati per me veicolo di salvezza totale, fisica, psicologica.
Non posso pensare – se penso al letto in cui sono stata immobile un mese – alla salute fisica separata da quella non fisica, non posso fare distinzione tra benessere fisico e spirituale. E questo è stato il miracolo che io ho vissuto. Gli amici, i parenti, i fratelli che si son fatti carico del dolore mio, e di quello di mio figlio, sono stati quelli che hanno diviso con me, con noi due, il pane e il pesce. Ma miracolo non è solo questa condivisione, miracolo è anche qualcosa d’altro. E questo che dico ora ho impiegato di più a capirlo. E anche a questo non sono arrivata da sola ma parlando con chi mi era vicino. Io non ho ricevuto passivamente questo amore, non sono stata solo oggetto di amore, ma sono entrata in relazione con chi me lo dava. In uno scambio reciproco. Io l’ho accolto questo amore, grata, gratissima, ma senza sentirmi in debito. Mai. Perché era così grande il dono che mi veniva fatto che uscivo dall’ottica del bilancio dare/avere e entravo in una dimensione più grande. E anche questo non era da me. E allora credo che anche questa capacità di rapportarmi agli altri pur dipendendo, la capacità di chiedere aiuto, di ricevere, sia stato un dono che mi è arrivato, attraverso coloro che mi hanno dato pane e pesce. Concludo con un’etimologia, miracolo deriva da mirari, meravigliarsi, a sua volta da smirari, guardare con meraviglia, con la radice del sanscrito smay, sorriso. A me, in quella stanza d’ospedale, mi è stato portato, oltre all’acqua minerale, alle camicie pulite, alle cure materiali, mi è stato portato il sorriso.