La speranza nell’Antico Testamento
Comunità di San Fermo – Bergamo
Giornata della comunità– 23 settembre 2012
«Siate sempre pronti a rispondere a chiunque
vi chieda della speranza che è in voi» (1Pt 3,15)
La speranza nell’Antico Testamento
ELENA BARTOLINI
Quello che cercherò di fare con voi è di trovare alcune chiavi di lettura per comprendere cosa significa sperare nella tradizione ebraica primo testamentaria; vorrei precisare che questo tipo di speranza non è finito con la fine del periodo quindi quello che cercherò di darvi è una lettura delle scritture antico testamentarie legata anche all’attualità delle letture ebraiche di questi testi. Perchè come ricorda tutta la tradizione post-conciliare vicina al dialogo la presenza della sinagoga di fronte e in dialogo con la chiesa è un dono di Dio legato all’elezione mai revocata del popolo di Israele; quindi non stiamo parlando di categorie del passato, ma stiamo parlando di categorie attuali che il cristianesimo accoglie mettendosi in dialogo con questa prospettiva.
Iniziamo da un primo rilievo linguistico: per esprimere il concetto della speranza nell’AT ci sono due filoni legati a due grandi radici verbali. La radice qawah indica proprio quello che noi traduciamo in italiano con speranza che però sorprendentemente non troviamo nella Torà (nel Pentateuco) come non ci sono nemmeno tutte quelle radici in qualche modo correlate, così come non c’è il termine hatikvà = speranza.
Perché questo? Perché nella Torà questa dimensione è espressa soprattutto con tutte le sfumature della radice aman che vuol dire credere, nel senso di rimanere saldi in Dio. Allora è molto interessante il fatto che per l’ebreo, nel testo scritturistico fondativo, la speranza si esprime con il credere, con la fede; credere è già il segno del poter sperare in qualcosa, in una promessa. Tutto questo poi, negli scritti profetici e negli scritti sapienziali diventa anche sperare nel senso di attendere. Quindi c’è come fondamento la fede e su questa è possibile inventare un’attesa. Ecco allora che la nostra riflessione si muoverà sulla linea della fede e dello sperare come attendere.
La radice che esprime la fede, aman è la stessa radice da cui deriva il termine amèn, che è largamente usato anche nella liturgia cristiana. Questo termine è stato spesso tradotto in italiano come “così sia” che sposta l’attenzione su una direzione che non è quello dell’amen biblico. Se vogliamo tradurre il termine amèn in un modo più aderente al suo significato semitico, dovremmo dire “questo è il fondamento” o “a questo mi affido”.
Corrisponde un po’ a quello che potrebbe essere definito il pilastro portante di una casa, o meglio ancora, se pensate a Israele biblico dei tempi del deserto, il picchetto fondamentale che tiene salda la tenda. Il fondamento della propria speranza, quello è l’amèn, il potersi fondare su qualcosa, non tanto “così sia”. Il potersi fondare su qualcosa, nella logica dell’alleanza, lascia molto spazio anche alla libertà dell’uomo: non è mai l’affidarsi ciecamente a Dio, ma è il fondarsi su una promessa in una dinamica dove l’uomo sa di poter anche lottare con Dio, così come ha fatto Giacobbe nella lotta con l’angelo ricordata nella Genesi.
Questo per me è molto rassicurante perché credere-affidarsi non è mai affidarsi ad una fiducia cieca, ma è legato ad una dinamica dove la libertà dell’uomo è presa sul serio perché può ricordare a Dio quali sono i termini della promessa della speranza.
Vi propongo una piccola riflessione rabbinica che mostra come la fede, la fiducia e la speranza in una promessa, in qualche modo possa essere considerata come la sintesi di tutti gli insegnamenti. Quando parlo di tradizione rabbinica, intendo tutta quella tradizione orale che è confluita e si è fissata in alcuni testi che hanno avuto una tradizione, che per certi aspetti nella prima fase è coeva ai Vangeli, per cui non è raro in certe fonti rabbiniche come la Mishnà trovare alcune parabole che ha insegnato Gesù; una tradizione orale che per l’ebreo ha lo stesso valore della tradizione sinaitica.
Per quanto riguarda la fede, una stesura rabbinica che è parallela alla stesura dei Vangeli dice: sette qualità hanno valore dinnanzi al trono della gloria che è trono di Dio e sono: la fede, la rettitudine, la giustizia, l’amore, la pietà, la sincerità e la pace. La fede praticamente è la prima di queste sette virtù (sette tra l’altro biblicamente indica sempre la perfezione perché rimanda alla totalità dei giorni della creazione). Qui la fede è la prima, ma proprio perché nell’ebraismo la libertà di pensiero è ampia, sentite come il Talmud (che come redazione è posteriore alla Mishnà), parla della fede arrivandoci per gradi. 613 precetti furono dati a Mosè questa è la tradizione di cui (sentite l’immagine) 365 negativi, sono quelli che vietano e sono quelli corrispondenti ai giorni dell’anno solare, 248 invece positivi, sono quelli che dicono di fare qualcosa, e corrispondono al numero delle membra del corpo umano, naturalmente è un conteggio simbolico. Poi Davide li ridusse a quelli del salmo 15: «Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia e parla lealmente, non dice calunnia con la lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulto al suo vicino. Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora chi teme il Signore. Anche se giura a suo danno, non cambia; presta denaro senza fare usura, e non accetta doni contro l’innocente. Colui che agisce in questo modo resterà saldo per sempre».
Sentite che l’accento è posto sulla prassi. Poi – dice il Talmud – venne il profeta Isaia e li ridusse a 6: «colui che cammina rettamente, parla lealmente, rigetta il guadagno acquistato con l’oppressione, scuote le mani per non accettare un dono illecito, si chiude gli orecchi per non sentire parlare di sangue, si chiude gli occhi per non vedere il male» (Isaia 33,15-16). Venne poi Michea e li ridusse a 3: «che cosa il Signore comanda se non di praticare la giustizia, amare la pietà e procedere umilmente con il tuo Dio» (Michea 6,8). E Isaia in seguito li ricondusse a 2: «così dice il Signore: osservate il diritto e praticate la giustizia» (Isaia 56,1). Alla fine Abacuc li ridusse a uno: «come è detto, il giusto vivrà della sua fede» (2,4).
Cosa vuole sottolineare questo procedimento rabbinico? Che a partire da una base che nasce dall’avere accettato gli insegnamenti rivelati e procedendo in crescendo, riducendo i precetti all’essenzialità, alla fine il precetto per eccellenza è la fede di cui vive il giusto. Ed è solo sulla fede che si può fondare la speranza. Ma questo vuol dire che tutto ciò che troveremo affermato nella scrittura nell’atteggiamento di fondo non potrà essere sganciato dalla prassi: non esiste fede, non esiste speranza che non sia legata anche ad un fare. Nella scrittura l’aspetto della testimonianza pratica è fondamentale, non c’è mai una teoria che non sia attestata in qualche modo dalla pratica. Quindi fede, speranza e prassi non possono che essere unite.
Presenterò ora alcuni eventi che attraverso i testi biblici mostrano come il credere-fiducia e la speranza si sono fissati nelle scritture bibliche.
Il primo esempio di questo affidarsi a Dio, che diventa fonte di speranza lo prendiamo da Abramo, il primo dei patriarchi, perché è la fede di Abramo che diventa paradigma poi di quello che è il fondamento della speranza per la tradizione.
Tra l’altro, lo scorso shabbat abbiamo appena celebrato il capodanno religioso ebraico che segna l’inizio dei “dieci giorni tremendi”, nei quali ogni ebreo è chiamato a fare un grande bilancio della sua vita riconciliandosi con tutte le situazioni che lo hanno visto in conflitto, quindi riconciliandosi con chi ha offeso e con tutte quelle situazioni che creano frattura per arrivare al giorno del kippur che è mercoledì prossimo nel quale il digiuno insieme in sinagoga, sarà il segno di questa riconciliazione avvenuta. In questi giorni ci salutiamo con l’espressione chatimà tovà – firma buona che significa chiedere a Dio di avere una “buona firma” nel libro della vita per poter ricominciare un anno riconciliati con lui. In questi giorni le attese di speranza per l’ebreo sono grandi e si fondano su questo tipo di speranza e la fede di Abramo come vedremo diventa l’elemento determinante perché Dio possa perdonare non solo a noi, ma a tutta l’umanità. Perché il capodanno religioso ebraico – il kippur – chiama in causa tutta la creazione di Dio, in questi giorni l’ebraismo rappresenta tutta l’umanità. Ho voluto partire da qui per dare l’idea di come nell’ebraismo ci sia una condizione universalistica che pochi conoscono. In questi giorni il popolo di Israele diventa il mediatore di Dio per gli uomini ed anche, attraverso Abramo, del perdono per tutti.
Andiamo a visitare quel momento della vita di Abramo (Genesi 15) quando Abramo giustamente chiede a Dio ragioni di una promessa che lo vede anziano con una moglie sterile, e quando diventa difficile pensare ad una discendenza, quella che Dio ha promesso ad Abramo: una benedizione, quindi una discendenza, un popolo grande, una terra (Genesi 12). Al capitolo 15 troviamo questo singolare dialogo che, come fa notare A. Neher, è il momento in cui Abramo lancia a Dio la sfida del dialogo. Fino ad ora Abramo era stato abbastanza silenzioso, non aveva parlato molto, era stato più Dio a intervenire, ma a questo punto Abramo chiede a Dio le ragioni di quello che dovrebbe essere il proprio sperare. Leggo alcuni versetti del capitolo 15 in una traduzione che è un po’ più letterale rispetto quella della Cei: «la parola del Signore fu rivolta ad Abramo in visione dicendo: Non temere Abramo io sono per te uno scudo, la tua ricompensa è molto grande» quindi è una riconferma di quelle promesse. E Abramo – che in Genesi 12 aveva risposto a Dio partendo, quindi con un gesto – risponde parlando «Signore Dio che cosa mi darai?» – direi che è audace da parte di un uomo – «io sono solo … non mi hai dato discendenza, il mio domestico Eliezer sarà il mio erede». E il Signore replica – è interessante questo parlare e replicare –, dicendo: «non ti è erede Eliezer perché ti erediterà uno che uscirà dalle tue viscere». A questo punto è Dio a compiere un gesto: «Dio fece uscire all’aperto Adamo e disse: “Guarda verso il cielo e conta le stelle se puoi contarle” e soggiunse “così numerosa sarà la tua discendenza”». A questo punto nel testo viene in causa la radice amèn: il testo dice: egli rimase saldo in Dio che gli mostrasse e qui si può tradurre come “l’atteggiamento di un giusto” o come “giustezza”, e tra poco vi dirò perché opto per la traduzione giustezza.
In questo episodio abbiamo alcuni elementi fondamentali. Innanzitutto la visione, la dimensione della teofania: il testo ci dice che qui siamo in una dimensione altra, tipica di tutti i luoghi in cui Dio si rivela. In questa dimensione altra, c’è una scelta del redattore biblico molto interessante: si usano due verbi “il fare uscire” e “il guardare verso l’alto”. Questo far uscire è legato sia a chi uscirà da Abramo come discendenza, indica molto bene l’atto del partorire del generare, ma indica anche il far uscire all’aperto, che va inteso non solo in senso fisico, ma anche in senso teologico. È chiaro che Abramo per vedere le stelle deve uscire dalla sua tenda, su questo non c’è dubbio, ma qui Abramo deve uscire anche dalla sua visione di destino, deve uscire dal modo in cui fin’ora ha creduto e ha avuto speranza nella promessa, deve forse imparare a vedere la sua storia con gli occhi di Dio.
Ed è interessante vedere che il verbo uscire sia all’imperativo coortativo: ref guarda verso il cielo, dove il narratore invece di usare la radice più solita ra vedere, usata più spesso nelle teofanie, preferisce usare la radice amabat. C’è qui un accezione molto famosa amebà shanai “guarda verso il cielo” dove si preferisce usare una radice che nei testi profetici, indica sempre il guardare dall’alto verso il basso. Due esempi: in Isaia per esempio la stessa radice la troviamo in questo passaggio dove il profeta dice: «perché così mi ha detto il Signore: starò tranquillo, guarderò, osserverò dalla mia dimora come il colore chiaro alla luce del sole, come una nube di rugiada al calore della mietitura», quindi è Dio che guarda dal cielo verso la terra. Ma ancora in Isaia 73 «tu Signore guarda dal cielo e vedi dalla dimora la tua santità del tuo splendore», sembra quasi che il narratore biblico ci stia dicendo “guarda che qui forse Dio chiede ad Abramo non tanto di alzare gli occhi verso il cielo, ma di partire dal cielo a guardare la sua storia”. Qui interviene il commento rabbinico, il midrash, che è quella tecnica che cerca all’interno della scrittura le relazioni che possano dar luce a testi diversi. Il midrash rabate – il midrash più importante sul libro della Genesi – così commenta questa espressione «e Dio lo fece uscire fuori e gli disse guarda verso l’alto». Rabbi Yoshua in nome di rabbi Levi chiede (questo parlare in nome di Rabbi indica la catena della trasmissione, indica il parlare dentro una tradizione): «l’ha forse fatto uscire fuori dal mondo? Ma gli ha fatto vedere le vie del cielo, come tu dici, quando ancora non aveva fatto terra o campi o cieli (il termine usato comprende entrambe le espressioni)»; cioè qui con l’espressione dei Proverbi “quando ancora non aveva fatto terra e cieli”, si cerca di spiegare questo “lo fece uscire fuori”. E rabbi Giuda in nome di rabbi Simone aggiunge: “lo fece salire al di sopra della volta celeste perché gli disse “guarda verso l’alto e non si guarda dall’alto verso il basso” e questo viene spiegato in nome dei versetti profetici che vi ho ricordato e si aggiunge “i nostri maestri hanno detto – tu Abramo sei un profeta e non un astrologo (così Abramo viene definito in Genesi 20 al pozzo di Gera dove tenta di far passare Sara come sua sorella come già aveva fatto in Egitto – Abimelech quando scopre tutto ciò che è successo lo definisce un profeta) e nei giorni di Geremia – dice il maestro – Abramo cercava di andare verso la credenza dell’astrologia e non della profezia, ma il santo, cioè Dio, egli sia benedetto, non lo permise, (qui si riporta un passo di Geremia) così disse il Signore: non imparate le vie delle genti, non abbiate paura delle vie del cielo, già vostro padre Abramo, aggiunge il maestro, cercava di andare verso la credenza e non glielo ha permesso».
Cosa vuol dire questo? Vuol dire che Dio invita Abramo a guardare il cielo. Perché? Perché Abramo è un beduino che attraverso il cielo si orienta e molto probabilmente conosce anche quell’astrologia in nome della quale si legge il proprio destino. Quindi è verosimile che Abramo abbia cercato, attraverso le stelle, di reinterpretare la promessa divina. Quindi dice “guarda il segno delle stelle, ma guardalo dall’alto e non dal basso”; è come se Dio portasse Abramo in cielo e gli dicesse: “adesso guarda la tua storia dal mio punto di vista e non dal tuo e allora ti accorgerai che questa promessa non è così impossibile che non possa realizzarsi, ma devi guardar la storia con gli occhi di Dio e non con i tuoi! puoi sperare se il punto di vista è quello di Dio e non il tuo”. Quindi Dio fa uscire Abramo da un orizzonte astrologico per introdurlo in un orizzonte di profezia, ed è solo a questo punto che il narratore può dire: «Abramo rimase saldo in Dio e questo gli viene ascritto come giustezza» (Genesi 15), cioè come uomo giusto, quel giusto che vive la sua fede di cui attesterà Abacuc nei secoli successivi. Il primo uomo giusto che vive della sua fede a questo punto diventa Abramo.
C’è un commento più moderno, nel senso che è medioevale, di rav Sci dove tutto questo viene ricondotto in questi termini: “Dio fece uscire Abramo dal suo orizzonte” secondo il senso letterale lo fece uscire dalla sua tenda per vedere le stelle, ma secondo il senso midrashico cioè teologico, Dio gli disse: “esci dalla tua astrologia poiché hai visto nelle costellazioni il tuo destino, un destino in cui non potrai avere figli; io ti faccio vedere invece un destino diverso”. Quella condizione avversa in cui sembra impossibile avere una discendenza diventa invece la condizione che permette al popolo di Israele di esserci. Da qui tutto lo sviluppo della storia biblica che vedrà poi la nascita Isacco.
Quindi abbiamo una speranza che viene da una fede che è vissuta in maniera biologica con Dio, Abramo ha il coraggio di ricordare a Dio i suoi impegni, è quello che ritroveremo in tutta la dinamica salmica in cui Abramo nel momento della prova chiede a Dio ragione dei propri impegni. Avete presente i salmi in cui si chiede a Dio “non dormire, ricordati delle tue promesse”: è chiaro che Abramo può fare questo perché nella logica dell’alleanza i partner sono due: Dio e l’uomo. Quindi, potremmo dire, una fede dialogica.
Ma questo camminare da giusto di Abramo, emerge ancora di più in Genesi 22 dove troviamo la narrazione della legatura di Isacco. Nella tradizione ebraica, non lo chiamiamo “il sacrificio di Isacco” perché in realtà è un sacrificio incompiuto, ma l’elemento importante è quello della legatura di Isacco sull’altare; è il secondo momento in cui la fede e la speranza di Abramo emergono in maniera forte. Qui, tra l’altro, troviamo un’espressione che nella Torà compare solo due volte ed è l’espressione “lek lekà – va verso di te”, che spesso le traduzioni italiane rendono con “vattene” o “parti”… Certo “va verso di te” letteralmente è difficile da comprendere; la spiegazione della tradizione è che qui non è tanto un andare fisico, ma è la scoperta di quella che è la vocazione di Dio su di sé; Abramo è un nomade e dire ad un nomade “parti” non ha molto senso, perché Dio chiede ad un nomade di partire? Forse perché gli chiede di partire non tanto fisicamente, ma da un’altro punto di vista. È un partire diverso, è un partire dai propri progetti che vengono riorientati. Ora in Genesi 12 per la prima volta questo imperativo (lek lekà) introduce la promessa, in Genesi 22 la rimette in discussione in maniera radicale, perché se quella in Gen.15 possa voler dire “ci credo che una discendenza possa esserci”, in Gen. 22 chiaramente viene messa in discussione.
Tenete presente che dal punto di vista della tradizione ebraica, la prova della legatura di Isacco è una delle 10 prove a cui Dio sottopone il patriarca perché è chiamato a dar ragione della propria fede in maniera radicale. La legatura di Isacco è la prova per eccellenza, ora questa legatura si conclude con un sacrificio che non sarà quello di Isacco, ma sarà quello di un montone o di un ariete, come vogliamo tradurlo. Ma che cosa è importante qui? Il fatto, non soltanto di una situazione che cambia (un mettere alla prova che diventa salvezza), ma un mettere alla prova che sfocia in quell’espressione di Gen. 22 in cui Abramo dice: «sul monte Dio provvede». Che cosa vuol dire? Vuol dire che ci sono due insegnamenti fondamentali: primo che il Dio di Israele non vuole sacrifici umani, cosa che invece era abbastanza usuale all’epoca di Abramo. Secondo, che Dio provvede, non solo perché Dio ha provveduto all’olocausto che ha sostituito Isacco, ma perché da questo monte provvede mediando un incontro, una salvezza universale. Cosa vuol dire? Vuol dire che nella elaborazione rabbinica della legatura di Isacco matura l’idea che la fede di Abramo, la speranza di Abramo sia stata messa alla prova perché attraverso questo suo aderire alla radicalità di una richiesta, Dio può, in nome di questa giustezza, perdonare i peccati di tutta l’umanità. Tanto è vero che noi ebrei sia a Rosh haShanà – il capodanno religioso – e a kippur suoniamo lo shofar che è fatto con un corno di ariete o di montone in ricordo della legatura di Isacco e del sacrificio del montone al suo posto.
Non solo, all’interno della liturgia abbiamo una poesia religiosa che riprende Gen. 22, un midrash rabbinico che amplifica il dialogo tra Abramo e Isacco, dove Isacco capisce, attraverso le risposte del padre, a che cosa sta andando incontro e pur piangendo – saranno le sue lacrime che porteranno gli angeli a far fermare la mano di Abramo attraverso l’intervento di Dio – dice al padre: “se questo vuol dire rimanere fedele alla promessa, legami stretto perché io non ti ostacoli nel manifestare chiaramente la tua adesione al progetto di Dio”. In questo modo Isacco viene associato alla giustezza di Abramo. In nome di tutto questo sottolineiamo più volte che in nome di questo Dio può perdonare l’umanità, per la giustezza di Abramo, per i meriti di Abramo. La fede di Abramo, non solo è segno di una situazione cambiata, dalla tragedia alla positività, ma diventa anche il segno della condizione universale della salvezza. Io dico che sempre che nella fede ebraica c’è una Abramologia che a mio avviso interpella positivamente la cristologia; mi rendo conto che sto dicendo qualcosa che si trova nelle dinamiche della cristologia, vi sto dicendo che l’ebraismo lo vive attraverso la giustezza e la speranza di Abramo.
Il secondo esempio lo prendo dal libro di Ester dove troviamo la speranza espressa con i verbi dell’attesa, dello sperare in una situazione che possiamo dire anche qui un cambiamento di sorti che si fonda sulla fede di Abramo, perché il popolo ebraico o perlomeno Esther in questa situazione può sperare in un cambiamento di sorti perché spera in un Dio di Israele che è Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe. Questo era per fare un esempio della speranza attraverso la fede e della speranza che si fonda sulla fede della tradizione.
La vicenda è nota: Esther alla corte di Assuero. Quello che vorrei farvi notare è che qui tutto il cambiamento delle sorti parte da un inganno, perché Esther è alla corte di Assuero che non sa che lei è ebrea. Proprio perché arriva alla corte di Assuero sulle indicazioni di Mardocheo che le suggerisce di non rivelare la sua identità, Esther è in una situazione di un ebrea che all’interno di una corte può cogliere gli intrighi di corte. Tra l’altro il nome di Esther viene da una radice ebraica che attraverso uno di quei meccanismi tipici della tradizione rabbinica, può essere ricondotto alla radice safar che vuol dire nascondere. Esther nascosta a corte in una situazione dove Dio, come vedremo, sembra nasconda il suo volto. Ora questo suo nascondimento le permette di cogliere le trame del primo ministro Aman che trama per distruggere il popolo di Israele. A questo punto entra in gioco il coraggio di Esther che si fonda sulla speranza che Dio possa intervenire. Vi faccio notare che il Dio di Israele nel testo di Esther non compare mai, è uno dei testi in cui il nome di Dio non compare mai, né il tetragramma né il riferimento esplicito al Dio di Israele in questo senso. Compare però il popolo di Israele che lo testimonia. Succede che Esther decide di rischiare la vita perché il suo popolo possa avere salvezza sperando soprattutto su un’eccezione da parte del re Assuero. Dove sta l’eccezione? In questa dinamica di harem di Assuero, perché Esther ne fa parte: la donna dell’harem non può decidere da sola di presentarsi al re quando vuole lei, dev’essere il re a sceglierla anche dopo una preparazione che può durare lungo tempo. Prendere l’iniziativa di presentarsi al re, vuol dire in quel contesto, rischiare la vita; questo non può farlo una donna, sappiamo bene come finisce Nasti la regina precedente che osa presentarsi al re nuda. Quindi Esther sa cosa rischia, ma sperando nell’intervento di Dio decide di sperare innanzitutto nel re Assuero e nella sua possibilità di fare eccezioni. Tanto è vero che, nei commenti rabbinici si sottolinea questo accettare da parte di Assuero la richiesta di Esther di avere un aiuto da lui viene interpretato come grande eccezione riservata a lei, non si dicono le motivazioni si dice però che fa questo. Quindi innanzitutto Esther fonda la sua speranza su un re. Ma la cosa interessante è che nel canone biblico ebraico la preghiera di Esther, così come la preghiera di Mardocheo che è canone cattolico, non c’è. Queste sono aggiunte che le traduzioni cristiane hanno fatto inserendo nel libro di Esther le aggiunte della versione dei settanta, quando la bibbia dall’ebraico viene tradotta in greco. Tradizionalmente si dice che Esther prima di presentarsi al re prega con il salmo 22 – il salmo che inizia con Eli Eli lama sabactani – Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato – che è il salmo dei martiri, non a caso la tradizione cristiana lo ha messo in bocca a Gesù sulla croce. Quindi Esther spera sapendo però di rischiare anche il martirio; è molto chiaro questo e lo fa con un salmo che esprime questa fede che è molto realistica: c’è la grande speranza ma c’è anche una grande consapevolezza. Vorrei anche farvi notare che dal punto di vista strettamente linguistico questo Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato è reso in ebraico con un’espressione molto forte dove il primo “mio Dio” è Eli ma il secondo è “Elohai” che in italiano potrebbe essere tradotto quasi come una sorte di imprecazione di bestemmia tipo “gran Dio dove sei”. quindi in italiano leniscono un po’ i toni con Dio mio Dio mio, ma se lo leggete in ebraico è più forte. Poi Esther continua: «Tu sei lontano dalla mia salvezza e queste sono le parole del mio lamento» quindi è il massimo della disperazione, però subito dopo cosa si dice? «In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati, a te gridarono e li hai salvati, pregando in te non rimasero delusi» e qui c’è un riferimento ai padri e ad Abramo. Anche Abramo ha sperato ed è andato verso di sé attraverso prove come quella della legatura di Isacco, ha scoperto che Dio vegliava su di lui attraverso la legatura di Isacco: quindi una speranza che passava attraverso la prova. Ma pensate all’Esodo: il popolo che grida al Dio dalla schiavitù spera in una situazione di disperazione, spera perché ha fiducia nella possibilità di una sorte che cambia. E ancora il salmo 22: «si è affidato al Signore, Dio lo scampi, lo liberi se è suo amico» lo liberi se è quell’uomo giusto, se è quella giustezza che abbiamo visto emergere in Gen 15.
Allora Esther prega in questo modo secondo la tradizione ebraica prima di incontrare Assuero. Ha il coraggio di rischiare la vita per il proprio popolo perché sa che la sua speranza è fondata in una promessa che vede comunque alla fine un destino buono, se non sarà nella sua generazione immediata sarà comunque il destino a cui Dio chiama l’umanità. C’è sempre questa prospettiva nell’immediato e nello stesso tempo alla lunga che si fonda sulla promessa. Allora quel cambiamento di sorti nel libro di Esther (fondamento nella festa di Purim – sorte che celebriamo generalmente a febbraio) diventa la testimonianza di una situazione che cambia là dove si ha il coraggio di aver fiducia anche nella prova.
Però qui Esther ha fiducia sia in Dio che in Assuero. Non basta aver fiducia solo in Dio.
Come direbbe Wiesel, dopo la shoah di fronte al male della storia bisogna credere sia in Dio che nell’uomo. Anche qui lancio un sasso a favore di questo secondo aspetto. Non basta la fiducia in Dio, bisogna credere anche nella capacità dell’uomo di recuperare i propri fondamenti di bene perché la storia non la fa Dio da solo. Ecco allora che quel mascherarsi dell’ebreo ancor oggi nei giorni di Purim è per ricordare Esther nascosta nella corte di Assero, dove in questa situazione di imbroglio, trova però la capacità di vivere la fede senza cambiamento di sorti per sé e per il suo popolo. Tutto nasce da un imbroglio, da un nascondimento, ma si tramuta in coraggio ed in fede che fa cambiare le sorti alla storia. Dio interviene e cambia perché c’è, in questo caso, una donna che ha il coraggio in qualche modo di richiamare Dio a quelle che sono le sue promesse.
Ora uno sguardo ai libri dei profeti. Ritroviamo la speranza nel perdono divino anche nella tradizione legata a Osea. Qui Dio trasforma la porta di Gerico che il popolo chiama porta di speranza. Speranza nel popolo di Dio. E’ quello che speriamo in questi giorni: che Dio possa mettere una buona firma per noi.
Speranza nei tempi messianici e nella resurrezione: pensate all’immagine delle ossa che troviamo in Ezechiele (37,11-14) che è un’immagine che nel cristianesimo spesso viene letta in riferimento alla resurrezione – e questo è vero – ma il testo dice: «non solo saprete che io sono io quando risusciterò i morti dai sepolcri … ma anche quando vi farò riposare nel vostro paese» che vuol dire ritorno nella terra promessa che vuol dire non solo una speranza escatologica ma anche immediata.
E’ una speranza che ancora una volta riporta a Sion; la tradizione dice che sul monte Sion dove c’è il tempio c’è il monte Moria dove Abramo è stato messo alla prova, e abbiamo visto quanto fonte di speranza sia stato questo evento.
Troviamo la speranza legata a un grande ritorno a Sion, al luogo del tempio, quindi al luogo di Abramo, anche in Isaia (25,6): «il Signore preparerà per tutti i popoli un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti e di vini raffinati». Anche nella festa di Purim legata ad Esther tutto si conclude con un banchetto, come si fa in tutte le feste perché il banchetto è il segno, l’anticipo del banchetto escatologico: ed è qui che Dio eliminerà la morte per sempre e si dirà quel giorno «ecco il nostro Signore, in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questo è il Signore in cui abbiamo sperato, rallegriamoci e speriamo». E questa speranza non è solo quella del popolo di Israele, ma di tutti i popoli chiamati a salire al monte Sion; c’è sempre questo tenere insieme la propria salvezza individuale e la prospettiva universale.
Concludo con un paio di brevi osservazioni. Innanzitutto, la scrittura e la tradizione ebraica che la interpreta si aspettano che la speranza debba avere il fondamento in una promessa: posso sperare se c’è l’attesa di una promessa che deve realizzarsi. Da parte di un Dio che è il Dio che libera dall’Egitto, è il Dio che cambia le sorti nel libro di Esther, ma è anche il Dio che può nascondere il suo volto. Potete immaginare quanto la shoah abbia messo in discussione tutto quanto; non a caso dopo la shoah si parla molto di “silenzio di Dio” anche all’interno dell’ebraismo, ma sopratutto lo sperare significa anche lottare con Dio.
La speranza non è solo fiducia non è solo attesa, ma è anche lotta. Anche qui riprendo un’affermazione famosa di Eli Wiesel: «si può essere ebrei con Dio, si può essere ebrei contro Dio, non si può essere ebrei senza Dio». Allora sperare significa anche lottare, non significa credere sempre che tutto possa andare bene, significa anche dubitare, significa mettersi in discussione all’interno di una logica di alleanza, significa imprecare come nel salmo 22 perché come insegna la tradizione rabbinica anche l’imprecazione può essere una benedizione se si parte dal fondamento che in Dio si può avere fiducia. È su questa fiducia che si innesta la possibilità di lottare ed eventualmente di confrontarsi con Dio. Credo che questo sia l’elemento più grande che ritroviamo nella scrittura perché ci fa riscoprire ogni volta partner di Dio e ci dice quanto la speranza deve essere una speranza dialogica. Non toglie le contraddizioni della storia, ma in queste contraddizioni abbiamo un motivo per poter lottare con Dio ricordandogli quali sono i suoi impegni. Come ricorda Buber nel bellissimo saggio “Il cammino dell’uomo” è su questo fondamento che l’uomo è chiamato a portare Dio nel mondo, facendo venire da quella giustezza da cui siamo partiti – e Buber la definisce la condizione sovrumana del genere umano – una speranza che si lega anche alle contraddizioni storiche e che permette di lottare con Dio.
È quella speranza attraverso la quale Dio affida all’uomo questo compito sovrumano che è l’uomo stesso. Nel mondo, come dice sempre la Torà, è la speranza. Non è più in cielo: è stata data agli uomini e dobbiamo fare i conti con una rivelazione che ci fa sperare, ma ci vede anche attori in prima persona.
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